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My Sweet Lord – George Harrison (1970)

A volte il destino fa scherzi strani, e finisce per farti brillare non solo della tua luce propria, ma anche di luce riflessa. Successe, qualche anno dopo, che un gruppo molto più famoso – alcuni, molti per la verità, sostengono il più famoso e importante di tutti i tempi – arrivò a sciogliersi lasciando al suo posto quattro solisti di gran nome.

George Harrison non iniziava la sua nuova carriera, nel 1970, come il più famoso degli ex Beatles. Al pari di Ringo Starr, aveva vissuto gli anni d’oro dei quattro ragazzi di Liverpool all’ombra delle personalità più esuberanti (alcuni dicono più carismatiche) di John Lennon e Paul McCartney.

Sta di fatto che invece fu proprio Harrison il primo ad avere successo come single. Il primo a raggiungere la posizione numero uno sia nelle classifiche inglesi che in quelle americane, quando ancora i più accreditati ex partners stavano a chiedersi cosa avrebbero fatto da grandi.

George Harrison era reduce da un viaggio spiritualmente formativo in India. La sua personalità, già estremamente raffinata e sensibile, ne era tornata accresciuta, arricchita. All Things Must Pass fu l’album con cui si fece trovare pronto per primo a liquidare il glorioso passato e a gettarselo dietro le spalle.

Di quell’album, My Sweet Lord era il brano di punta, quello che sbancò il botteghino anche come singolo e che gli fece da viatico per il celebre concerto per il Bangladesh dell’anno successivo, con cui Harrison divenne una leggenda umana oltre che musicale.

Il brano era intriso di spiritualità induista, ed era inteso come inno alla spiritualità in generale, abbracciando tutte le religioni del pianeta. Ma aveva un difetto, ed il suo autore se ne accorse quando era troppo tardi. Assomigliava troppo nella musica e in certi versi a quel brano del 1962 delle Chiffons. Alle quali, versando in cattive acque al pari della loro casa discografica, la Bright Music, non parve vero di intentare causa per plagio.

Da persona onesta qual era, Harrison rigettò l’accusa ma ammise la somiglianza, commentando un «non me n’ero accorto» che era un inno alla sincerità ma che fu la base per ottenere torto in tribunale. Harrison ebbe un bel sostenere che se si era ispirato ad un brano del passato questo era semmai Oh Happy Day!

Nel 1976 la corte federale degli Stati Uniti lo giudicò colpevole di plagio inconscio, imputandogli di versare buona parte dei proventi del disco alle Chiffons, agli eredi del compositore Ronnie Mack nel frattempo scomparso ed alla casa discografica Bright, che nel frattempo essendo sull’orlo del fallimento veniva rilevata dall’ex manager di Harrison Allen Klein, rimasto in pessimi rapporti con il suo ex assistito.

Che non impedì il successo planetario di Harrison e del suo pezzo. Il cantante liquidò alla fine le sue pendenze versando qualcosa come 500mila dollari ai vincitori della causa. John Lennon pochi mesi prima di morire, nel 1980, si rese autore di una velenosa intervista in cui metteva in dubbio la involontarietà del plagio di Harrison.

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Autore

Andrea Sarti

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